lunedì 20 giugno 2016

La foresta europea e il suo ruolo nel Medioevo Russo


Ricevo e Pubblico

© 2016 di Aldo C. Marturano

Da qualche decennio o forse più a questa parte ci saremo accorti che si è creata ed è cresciuta in noi la domanda generalizzata – si potrebbe definirla socio-politico-ecologica – di alberi, di verde, di parchi e non più di un paesaggio con piatta e opulenta campagna. L’agriturismo si è diffuso un po’ dovunque in Europa e ci invita non solo a vivere per qualche giorno fra i soliti campi coltivati e frutteti, ma ci indica e traccia itinerari – trekking, rafting, climbing e simili – attraverso… boschi e foreste! Ovunque si possa e piani regolatori permettendo, nelle grandi e nelle piccole città europee si creano pertanto giardini e parchi con numerosi alberi e arbusti mentre negli hinterland si delimitano aree di conservazione naturale della flora arborea con la preferenza per gli alberi d’alto fusto. E gli animali? Quelli di media taglia pur legittimi abitanti di un paesaggio a foresta e parte della fauna europea ancora in tempi storici come i leoni, le linci, i lupi o gli orsi e altre belve meno note, li abbiamo invece ormai relegati negli zoo o nelle oasi del WWF! E non solo! Persino in casa propria ci creiamo angoli con alberi ornamentali di varie specie esotiche importati da lontani paesi e talvolta addirittura miniaturizzati come i bonsai! Diciamo allora che, si chiami pure rimboschimento, parco, giardino, verde attrezzato, angolo verde del salotto o come si vuole, a noi pare chiarissimo il desiderio impellente di passeggiare, di fare un picnic o di vivere seppur in vacanza in ambiente boschivo perché circondati da alberi ci sentiamo in equilibrio con l’ambiente! Tutto ciò non è però un effetto “ecologico” del XX-XXI secc. che cerca di riconciliarsi con la natura, ma è lo scotto che “paghiamo” per certe idee fatte di simboli, credenze, mode e altro nate nel XII sec. in Europa nel Papato il quale, riscattandosi chissà dopo esser stato arginato dall'Islam, si dette all'evangelizzazione forzata delle etnie europee “pagane” e alla distruzione della “loro” foresta. E il battesimo rimase strettamente collegato alla terra coltivata tanto da poter dire che il cristianesimo è una secolare filiera di produzione industriale che spazia dalla teologia al letame per concimare i campi (R.B. Ekelund/R.F. Hébert/R.D. Tollison - The Marketplace of Christianity, 2006 v. bibl.). D'altronde godere della permanenza fra gli alberi non è una sensazione immaginaria di libertà e di riposo rilassante, ma ha delle basi naturali e scientifiche. La fotosintesi clorofilliana che le foglie verdi compiono produce dell'ossigeno. Questo gas vitale s'immette nell'atmosfera della foresta e noi respirandolo proviamo ondate di reale star bene. Non solo! L'aria della foresta è priva delle porcherie che inquinano quella di città e anche questo è un effetto piacevole. In più la stessa sintesi produce acqua, limpida e pura, che sotto forma di umidità dà la sensazione di freschezza sulla pelle e su tutto il corpo. Non è l'umidità del torrido caldo che diciamo afoso! D'altronde si pensi che tonnellate di precipitazioni: pioggia, neve, grandine cadono dapprima sul manto forestale e poi sotto forma di acqua nei nostri acquedotti ed è questa la migliore acqua da bere proprio perché filtrata dal suolo e purificata dalle piante e dai microrganismi che vivono nei laghi e laghetti della foresta! Purtroppo in Italia le foreste rifugiatesi sulle montagne e in numero ridottissimo in piano continuano a essere distrutte dalla cementificazione, malgrado l'urbanistica moderna preveda una piantumazione di alberi cosiddetti ornamentali in ogni ambiente possibile... persino dove si passa la maggior parte della vita moderna cioè nelle fabbriche o negli uffici, ma basta? E che c'è di meglio d'una città “piena di verde” ordinato e curato e senza animali “pericolosi” secondo la dottrina degli archistar? Leggendo la storia geologica del nostro continente, sappiamo che nei millenni passati una grandissima parte era coperta da foresta e cioè, quando 10 mila anni fa finita l'Era Glaciale i ghiacci si ritiravano a nord, la biocenosi (è il termine scientifico appropriato per una comunità vivente) forestale dalle rive del Mar Mediterraneo-Mar Nero-Mar Caspio aveva colonizzato la superficie lasciata libera. E l'uomo? La “inseguiva”! Da raccoglitore-cacciatore man mano che essa avanzava verso nord con le sue piante e i suoi animali, l'uomo la vedeva come l'unica sua promettente fonte di benessere.

Le 4 carte sono tratte da M. Williams – Deforesting the Earth, pag. 7 (v. bibl.) e sono da leggere così: Le prime due in alto hanno gli scudi glaciali che coprono la Scandinavia, l'Islanda e una parte della Scozia e come si vede si ritirano cedendo spazio alla foresta e cioè 1. Tundra, 2 Foresta a Betulla, 3 Betulla e Conifere, 4 Conifere dominanti, 5 Foresta mista decidua-conifere nordica, 5A Mista decidua con Pinus sp. dominante, 6 Foresta mista decidua, 7 Montana decidua, 8 Montana mista e conifere, 9 Foresta mediterranea. La datazione nell'angolino sinistro in alto è in anni prima del 1950 d.C. o Before Present. Poi era arrivata l'agricoltura dall'Anatolia (dalla Turchia del sudest) intorno a 7500 a.C. con la conseguente sedentarizzazione ed erano cominciati i primi interventi di deforestazione per ottenere campi da coltivare con annesso spazio dove costruire città. A quel tempo infatti le città erano pensate più che altro come veri e propri depositi di granaglie e derrate commestibili e di conseguenza civiltà materiale e deforestazione si stabilizzarono limitandosi l'un l'altra per qualche tempo. Specialmente nelle zone con suolo facilmente adattabile al coltivo e agli arnesi primitivi in uso, come nella conca del Danubio verso il 5800 a.C. (H. Haarmann, 2011 v. bibl.), la foresta circostante rispose al clima più caldo tipizzandosi con le specie presenti. Le cartine qui sopra suggeriscono una visione della situazione all'alba dell'Età del Ferro in pratica tenendo presente che da 10 mila anni viviamo in un'era di graduale e costante riscaldamento del clima (interglaciale Würm), a parte l'accentuato negativo “contributo” umano sulle temperature globali.

In quest'altra carta (da N.J. Conard & J. Wertheimer – Die Venus aus dem Eis, 2010 v. bibl.) si vede l'Europa con le specie animali presenti nell'Era Glaciale che stiamo oggi attraversando. Molte specie sono ormai estinte: l'alce dalle grandi corna o Megaceros, il Mammuth o Elephas primigenius, il Rinoceronte lanoso etc.. Sono evidenziate pure le zone coperte di ghiaccio da confrontare con le cartine precedenti e le coste marittime più antiche. Come si sa prima della caduta di Roma sul Tevere quasi i 4/5 dell'Europa dall'Atlantico agli Urali erano coperti da foresta, paludi e marcite e 800 anni dopo praticamente la metà di questo paesaggio non c'era più e oggi è ancora meno. Naturalmente lungi da noi pensare che la foresta attuale sia la stessa di ieri in estensione e consistenza giacché fauna e flora sono cambiate avvicendandosi nei propri cicli vitali nella lotta per la sopravvivenza con altre popolazioni e specie (come si vede nella carta qui sopra). A questo punto però ci domandiamo: Se questo bene, la foresta, con flora e fauna (noi compresi) si è ridotto di così tanto non è forse colpa della specie uomo che si è imposta con i suoi bisogni a tutte le altre? E noi, come studiosi del Medioevo Russo, ne poniamo ancora un’altra: Perché in Europa si è salvata proprio quella parte di boschi e di selva frequentati dai popoli slavi e germanici? Slavi e Germani meglio di altri popoli devono avere qualcosa di particolare in comune per essere così attaccati all'ambiente “foresta” e per averlo difeso – come sembra finora – da dannosi attacchi. Mitologie? Costumi? Conformazione corporea o che altro? Sono dubbi e questioni che lungo un tragitto storico-naturalistico e persino usando la letteratura speriamo di dissipare. Anzi, rileggiamoci subito la Divina Commedia quando ai tempi di Dante, alla fine del XIII sec., la foresta in Toscana c’era ancora al contrario di oggi dove in quegli stessi luoghi quasi ogni estate ne vanno a fuoco ettari e ettari dolosamente. Il Primo Cantico è l’Inferno e comincia così (in caso l’aveste dimenticato!): “Nel mezzo del cammin di nostra vita “Mi ritrovai per una selva oscura “Ché la diritta via era smarrita. “Ahi quanto a dir qual era è cosa dura “Esta selva selvaggia ed aspra e forte “Che nel pensier rinova la paura…” Si notano subito nel nostro poeta, uomo colto del suo tempo, le sensazioni che la foresta gli suscitava e ci accorgiamo che esse sono simili a quelle che ancora oggidì percepisce chi la attraversa o, pensate!, soltanto la guarda rimanendone al di fuori, mentre si chiede (fantasticando e rammentando le favole dell'infanzia) che cosa si possa nascondere nel fitto e misterioso interno! Dante d’altronde era un uomo di città e la campagna con i boschi attorno gli apparivano in un mondo a sé, diverso e particolare e malgrado tutto positivo. La foresta subappenninica toscana rifugiata sui declivi montagnosi circostanti restava aliena a lui che viveva nel lussuoso scenario cittadino del Rinascimento italiano in cui gli alberi e le piante apparivano sovente nei dipinti, ma non altrettanto spesso nelle strade cittadine. La selva incuteva paura e, se Dante scelse di porvi le sofferenze dell’Inferno, doveva essersi ormai radicato in lui il concetto che in essa non potessero che nascondersi le forze del male. Il demonio dei cristiani impersonato da Lucifero trovava qui giustamente la sede dell'Inferno cattolico, regno dei tormenti eterni! La selva però è altro rispetto a quanto non sia immaginabile dalla Divina Commedia e da ciò che ne resta dopo la deforestazione medievale fino ai boschi della riforestazione settecentesca… Se ci pensiamo bene, i sentimenti preconcetti di cautela verso l’ambiente forestale sono pure antichi se già il latino silvaticus derivato da silva ossia foresta (quest'ultimo termine latino medievale di etimo incerto fu usato per la prima volta nei Capitolari di Carlomagno a designare riserve di caccia) e tramandato nell’italiano selvaggio e selvatico ci trasmette connotazioni semantiche allarmanti. Lo stesso si potrebbe dire del tedesco e dell’inglese wild (selvaggio) che hanno radice comune con Weald/Wald rispett. ingl. e ted. per foresta. In questi ultimi etimi ci accorgiamo che in inglese il verbo bewilder non significa soltanto rendere selvaggio, ma anche sottoporre ad incantesimo. Al contrario la parola wood, ingl. per bosco, analoga allo svedese ved, si riferisce al legname da ardere innanzitutto per illuminare e si collega con la radice indoeuropea *ved- vedere, conoscere, sapere o illuminarsi! L’aggettivo russo dikii/дикий al contrario significa selvaggio in riferimento a spazio non coltivato, senza foresta, e la sua variante divii/дивий sta per magico e divino con un etimo vicino a guardare, vedere, stupirsi o nella variante generica slava dživii/живий persino vivo! E che dire del vecchio nome russo dell'uccello della sfortuna, div cioè upupa, che pure rientra in questa famiglia di parole? Quanto poi alla parola per albero in russo, dérevo/дерево, essa è collegata con il greco δρυς, quercia, e col latino trabs o trave di legno che si collegano all'ingl. tree e simili di altre lingue germaniche. Niente di strano, se non fosse che l'etimo originario di queste ultime parole è affidabile, vero, giusto, che giura per degli dèi! Ci potremmo dilungare oltre sulle etimologie, ma pensiamo che gli elementi filologici forniti bastano a non farci meravigliare in ultima analisi se la parola tempio e il suo antenato latino templum e l’analogo greco temenos significarono in origine luogo separato nell'oscurità sacra della foresta e cioè nella biocenosi forestale alberga l'idea di sede di forze magiche sovrumane da venerare. Se l’etimo appena detto lo dobbiamo a una famosa ricerca del grande folclorista e linguista tedesco Jakob Grimm che insieme a suo fratello Wilhelm raccolse il Mito Teutonico contenuto nelle fiabe e nelle saghe germaniche tutte imperniate sulla foresta, la radice *ten-/*tem- per tenebra, oscurità, ombra in realtà significa prima di tutto separare la luce dalle tenebre (gr. temno/τέμνω) che è la stessa idea che ritroviamo in russo. Nei racconti popolari russi (le cosiddette byliny che noi abbiamo italianizzato in bylina/byline) esiste una distinzione netta fra belyi svet o mondo illuminato esterno alla selva dove si vive appunto nella luce del sole e t’ma o oscurità, luogo “ritagliato” della foresta dove oscurità e luce sono governate da forze divine e dove perciò è rischioso avventurarvisi, se non ci si è premuniti della protezione degli dèi! La conceziome si attaglia in maniera perfetta all'ambiente forestale che non vede la luce del sole, se non quando il bagliore degli dèi – la folgore – s'abbatte su un vecchio albero dandolo alle fiamme! Pensiamo che il nostro lettore si sia pure accorto che a questa radice fa capo l'italiano temere dal latino timeo da cui Timor Pànico ossia la paura che ci assale di cadere in potere del dio Pan, signore della foresta! Ed ecco l'eterno dualismo luce e tenebra, vita e morte, divinità e paurosa umanità onnipresente nel discorso medievale del Grande Nord pagano in cui, raccontavano i cantastorie ciechi nei mercati russi del passato, gli eroi delle saghe devono combattere contro le forze occulte nelle foreste che «...oscure si elevano dalla terra al cielo...» (V.N. Dal', v. bibl.) appunto come delle enormi case-templi degli dèi il cui tetto sono le chiome degli alberi. I Balti raccontavano che la volta celeste fosse sostenuta dall'Albero del Sole più grande di tutti gli altri alberi che aveva le sue radici nella Madre Terra (lettone Zemes Mâte) e la chioma nel cielo e che si trovasse nel lontano occidente. Su questo albero (quercia o tiglio) il Sole alla fine della sua corsa circadiana appendeva la sua cintura e passava nel mondo sotterraneo dei morti per poi risbucare la mattina dopo a oriente! Insomma il binomio uomo-selva che domina non solo il mondo culturale e le credenze pagane/cristiane degli europei, ma addirittura è davvero intrigante perché primordiale e universale! Le ricerche antropologiche recenti hanno chiarito che la specie Homo sapiens, allo stesso modo degli altri Primati a noi più vicini che ancor oggi si aggirano fra gli alberi del mondo, sia venuta fuori dalla foresta africana a sudovest dell'Etiopia odierna dove viveva da specie raccoglitrice-cacciatrice prima di passare nella savana e diventare umana con la postura diritta su due gambe che ci distingue. Ca. 50 mila anni fa Homo sapiens – var. sapiens o uomo attuale – abbandona per cause climatiche sfavorevoli (inaridimento) la foresta ormai diventata savana e s'immerge nella grande avventura che lo porterà in Australia e fin nelle Americhe. Homo sapiens sapiens però è nato nella selva e questa rimane la parte più intima e il ricordo incancellabile della sua evoluzione giacché qui ha messo insieme (e lo fa ancora, se si guarda come e dove vive gran parte dell'attuale umanità nel mondo!) la sua cultura, materiale e immateriale! La letteratura scientifica sull'argomento è vastissima e potrebbe riempire un’intera biblioteca, ma la fantasia umana è andata già da lungo tempo al di là della scienza. Nella popolarissima Bibbia si è immaginata la coppia primeva, Adamo ed Eva, mentre si aggira nella foresta, il cosiddetto Giardino dell’Eden. Qui la coppia scopre la scienza che la divinità creatrice riservandola per sé ha racchiuso nei frutti dell’albero del bene e del male e che l'uomo non deve neppure osar toccare. Quando il dio biblico sorprende i due dopo che hanno mangiato i frutti dell'albero proibito, li punisce con una serie di pene e in primo luogo li priva dell'immortalità fisica! Insomma un bel guaio... Eppure in chiave consolatoria nel Talmud ebraico la storiella dell'albero del bene e del male con le punizioni inflitte è interpretabile come una possibilità offerta dal Creatore che stimola l'uomo allo studio e chissà che un giorno con la ricerca scientifica non possa riprendersi l'immortalità, eliminare il dolore e governare l'intera natura. Dunque la foresta è degna di indagine anche per Bibbia e Talmud ed ecco quanto dice della foresta boreale europea il silvologo francese G. Rougerie: «(Essa)…supera gli 8000 km d’estensione dall’ovest a est e i 1800 da nord a sud. Si tratta d’una foresta densa almeno a parte le marche settentrionali, ma non spettacolare, poiché i suoi alberi raggiungono raramente i 25 m d’altezza e si tengono più spesso intorno ai 15 m con tronchi di piccolo diametro e rami abitualmente corti. La grandiosità della foresta (europea) è dovuta piuttosto alla sua omogeneità d’aspetto che ossessiona. … non c’è al mondo altra foresta così semplice, così monotona di questa foresta a conifere.» Certo, è una descrizione sommaria (quasi “irritata”) che si adatta più che altro allo stato attuale della selva europea nell’area francese in particolare già depauperata della maggior parte delle sue querce e dei suoi faggi abbattuti secoli fa dai Romani, ma il nostro autore continua e ci dà un’altra informazione preziosa e cioè che grosso modo la foresta europea si può dividere in due varietà: Una parte occidentale a dominanza del faggio (Fagus sp., ted. Buche, ing. Beech, rus. Buk) ed un’altra nordorientale a dominanza della quercia (Quercus sp., ted. Eiche, ing. Oak, rus. Dub). E quest’ultimo tipo di foresta a noi interessa di più poiché è quella che oggi si estende dalla Polonia agli Urali (senza andare troppo verso nord perché in tal caso, a causa della latitudine e del clima relativo, la foresta cambia e diventa arbustiva o tundra) e chiamata dai russi taigà. Attenzione però! Non vogliamo rafforzare l'idea di foresta come qualcosa di statico e eterno rispetto a noi mortali perché qualsiasi comunità vivente col passar del tempo e degli eventi climatici muta. Lo abbiamo detto, alcune specie che abitavano nel passato nella foresta europea, ora non ci sono più e ci riferiamo sia alla flora sia alla fauna. Altre nuove specie importate le hanno rimpiazzate e l'hanno trasformata. In seguito per opera dell'uomo alcune zone una volta deforestate sono state riforestate, seppure la riforestazione, ahimè, non è stata sufficiente a cancellare gli scempi. Questa febbrile (!) attività dell'uomo vuol dire che la foresta la si vorrebbe immutabile e eterna ad uso e consumo umano, ma è legittimo ciò? In realtà stiamo parlando di esseri viventi che vivono insieme e negli ultimi anni si comincia a svelare una realtà di comportamenti individuali importantissimi di questi nostri “coinquilini” che non possono essere più ignorati. Anzi! L'uomo deve tessere delle relazioni sentimentali con piante e animali come pure capire e rispettare le relazioni già esistenti. Indicativamente la Zona IVa nella classifica del climatologo russo Lavrenko (1950 v. bibl.) detta Foresta boreale decidua a latifoglie o taigà è il palcoscenico sul quale si è svolta la maggior parte degli eventi che la tradizione ci ha lasciato dei popoli nordici e dove potremmo tranquillamente far rivivere con i suoi attori in una Storia dell’Europa di Nord-Est. Ed ecco che all'inizio del nostro primo millennio, ai tempi di Tacito e di Plinio il Vecchio (I sec. d.C.), nel teatro del Grande Nord vediamo presenti due grandi gruppi etno-linguistici, i Germani e gli Slavi, ai quali possiamo agganciare il Medioevo Russo con gli eventi storici che tanto ci stanno a cuore. Le saghe nordiche tuttavia, non sono vissute soltanto da Germani e Slavi, ma anche da Baltici e Ugro-finni, per i quali l’ambiente con gli alberi domina pesantemente anche nella loro storia e queste etnie nel Medioevo vivevano a stretto contatto le une con le altre. Dai boschi, dal fitto, dal buio dell’intricata selva o dalle lunghissime e buie notti invernali mostri, maghi e altri esseri spaventosi e potenti uscivano per popolare il rispettivo folclore e le tradizioni popolari e, malgrado la lontananza geografica e culturale, le rappresentazioni divine provenienti dalla foresta sono quasi le stesse dei Celti. Non solo! Le dette etnie hanno spesso venerato misteri divini molto simili localizzati nella foresta tanto che il loro rispetto verso quel grandioso mondo verde oscuro e pauroso si nota facilmente negli aspetti e nei riti somiglianti che ancor oggi vengono celebrati in Russia da nord a sud. D'altronde come dimenticare che l'oscurità faceva parte del vissuto annuale nelle stagioni siberiane e dell'Artico? I Lapponi, ad esempio, non vivono forse 6 mesi all'anno nelle tenebre invernali? Se questa è la situazione nel nord, come si presentava al sud dove la civiltà europea era fiorita con successo? Anche qui c’entrava la foresta? Certamente sì! Le biocenosi forestali appaiono per prime con alberi d'alto fusto giusto nel paesaggio mediterraneo a corona dei ghiacci che ancora occupavano quelle regioni. Eppure nella Grecia dei tempi storici la selva era quasi totalmente scomparsa lungo le coste ad opera dell'uomo e gli dèi dell’Olimpo greco erano stati costretti a ritirarsi sulle montagne più alte per ritrovare gli alberi e gli animali a loro sacri… Già ai tempi di Erodoto (V-IV sec. a.C.) s’importava legname e prodotti silvicoli dal Mar Nero o Ponto Eusino (nome greco di quel mare) e la colonizzazione greca era indirizzata a acquisire le materie prime ricavate dalla foresta anatolica e caucasica visto che la costa nordica del Ponto risultava dominata dalla steppa, biocenosi diversa dalla foresta. Ad esempio, se Trapezunte (oggi Trabzon) in Anatolia deve il suo nome (trapeza in greco vuol dire tavola o asse di legno con 4 gambe) al traffico di assi di legno e Pitsunda in Abchazia (il famoso paese del Vello d’Oro, degli Argonauti e della maga Medea) tradisce l’antico commercio della pece per calafatare (pitus in greco è l’abete resinoso o Abies Picea da cui la pece si ricava), non sono queste le prove evidenti (ce ne sono molte altre) che i Greci sopperivano alla povertà di foresta dell’Ellade classica? Né il discorso si esaurisce, ma preferiamo generalizzare dicendo che per secoli le relazioni culturali e commerciali fra popoli diversi nacquero e si mantennero proprio in ragione della sparizione o della presenza degli alberi. Ricordate il re Salomone che si accorda con Hiram, il re di Tiro, per farsi mandare i tronchi di legno di cedro per la costruzione del suo tempio a Gerusalemme? Vecchie storie? Non tanto! Se si pensa che proprio traffici analoghi di gran lunga posteriori a questi eventi si instaurarono nella Pianura Russa che riuscì a mantenere per secoli, quasi senza interruzione, strettissimi contatti con il resto d’Europa e del mondo come fornitrice primaria! Rimaniamo però ancora un attimo nell’ambito mediterraneo. Alla potenza marinara greca successivamente si sostituì quella di Roma e qui è da sottolineare subito l'aspetto “forestale” col suo grande peso economico e ecologico. Il Lazio, la regione dove nacque il nuovo impero universale, in origine era coperto di foreste (si ricordino gli ambienti descritti nelle opere di Virgilio e la leggenda di Romolo e Remo affidati ad una lupa, tipico animale silvicolo!). Con l'enorme sviluppo dell'uso del tipico prodotto della foresta, il legno, come materiale per costruzioni, per il riscaldamento e per far carbone o per la fusione dei metalli o per la terracotta etc. gli alberi a poco a poco furono abbattuti in tal numero che boschi e foreste scomparvero rapidamente intorno alla grande capitale del mondo. Qualche esempio in più basterà per capire quanto fosse diffuso il legno negli oggetti quotidiani e come non se ne potesse fare a meno. Roma si costruì una flotta di navi da guerra e commerciali a partire dalle famose Guerre Puniche e continuò a mantenerne una e con sempre più navi per tutta la durata dell’Impero fino al XV sec. e le navi erano fatte di legno e se ne perdevano anche parecchie negli scontri militari e nelle tempeste! Roma inoltre costruiva case, “valli” difensivi, carri, etc. tutti fatti di legno. Soltanto le costruzioni monumentali erano di pietra o di mattoni e nemmeno interamente poiché in particolare i tetti e gli infissi degli stessi monumenti erano comunque lignei! Per mettere su poi pietre e lastroni si usavano impalcature, trabiccoli, gru e diversi altri marchingegni naturalmente fatti di legno! E per alimentare i fuochi sacri? Gli arnesi da lavoro e le armi erano di legno o avevano manici di quel materiale. Se addirittura si pensa alle migliaia di lance che dopo ogni battaglia rimanevano sul campo, è logico pensare alla loro raccolta e vedere i legionari romani occupati nel servizio di recupero accurato degli spolia non solo metallici! È vero! Le radure prive di alberi venivano trasformate in campi coltivati, visto che era diventato ora d’ordine primario nutrire una popolazione numerosa, ma con la selva si eliminava una grandissima fonte di materie prime a cui la civiltà romana comunque non rinunciava per il suo sviluppo ulteriore. Senza alberi il territorio restava privo addirittura di un’efficace protezione ecologica e strategico-militare e su quest'ultimo punto restò proverbiale la tragedia delle legioni romane di Quintilio Varo nel 9 d.C. perdutesi nello scontro coi Germani di Armino nell'impenetrabile foresta di Teutoburgo! Concludendo, se questi furono gli usi e gli abusi del legno, fu per Roma giocoforza, non appena cominciò a scarseggiare in Italia, rivolgersi ad altre regioni d’Europa dove la foresta sopravviveva al di là delle Alpi e conquistarle. La prima fu l'immediatamente vicina Gallia e la seconda fu la non lontanissima Spagna a subire l'azione devastatrice dei Romani. Né Roma si fermò, ma si volse verso nord non molto oltre il Reno e fin nel Danubio al sud. La Dacia fu conquistata penetrando fin nelle foreste precarpatiche! Qui i Romani incontrarono popoli difficili da sottomettere e molto spesso vennero a patti con essi dopo scontri sanguinosi per riuscire a deforestare in tranquillità. Sarà una lotta che durerà secoli in questa regione che noi conosciamo col nome di Transilvania! Successivamente i popoli sottomessi da Roma a loro volta la conquistarono e sopravvenne un nuovo rimescolamento di genti e di culture mentre subentrava una pausa nello sfruttamento del patrimonio forestale. Ormai però siamo nel cosiddetto Medioevo e i consumi riprendono e il legno, ma solo per certi usi, deve essere ora importato da molto lontano, da regioni dove il potere militare dell’Impero non arriva più direttamente e cioè nello sconosciuto e misterioso nordest d’Europa: Terra degli Sciti e degli Iperborei di erodotea memoria! I consumi tuttavia si sono diversificati e la foresta nordica non fornirà esclusivamente legno in grandi quantità che a volte è difficile da trasferire sulle grandi distanze, ma prodotti la cui domanda esisteva già prima, sebbene non si fosse ancora sviluppata fra la gente comune e fra le élites. Infatti certe mode stavano prendendo piede nella domanda delle grandi e scintillanti città del sud e possiamo tranquillamente dire che ciò accadeva proprio perché lo sfruttamento intensivo delle foreste del nord riusciva meglio a soddisfarle. Tanto per dare un'idea vediamo uscire dalla foresta europea e viaggiare lungo le strade commerciali più disparate grandi quantità di cera per le fusioni del bronzo, di miele per le tavole eleganti delle élites e di pellicce pregiate in consumi di sfarzo che salirono a livelli altissimi. Che cosa stava accadendo? I re e reucci, vescovi e cardinali, imperatori, emiri e califfi si erano moltiplicati per vicende storiche intervenute dopo l'VIII sec. d.C. e, se nel passato tutto finiva a Roma, ora c'erano tantissime nuove corti che pretendevano di ostentare la loro potenza imbandendo ricche tavole con prodotti commestibili da tutto il mondo o pavoneggiandosi in abiti sfarzosi imbottiti con piumino d’oca o indossando mantelli di pellicce pregiate reperibili esclusivamente nel Grande Nord per tacere dei gioielli d'ambra del Baltico o d'argento dei Monti Urali! Con l'avvento dell'Islam nel VII-VIII sec. d.C., se per Costantinopoli (ossia Roma Nova o Secunda) e Cordova in testa la pietra e il mattone servivano per le costruzioni monumentali (senza contare Baghdad e la Persia dall'altro lato del mondo, apparse come consumatrici di prodotti forestali nei secoli a seguire), per le case e per le navi si continuò ad usare il legno, ingegnandosi di integrarlo con altri materiali (metalli!) che si riusciva a trovare. Guarda caso però, allo stesso tempo per garantirsi le “forniture”... si cominciò a escogitare piani per impadronirsi delle foreste del nord! Come spiegheremmo altrimenti le sfide lanciate dal Papato romano occupatissimo a battezzare le élites pagane slave, germaniche, baltiche e quante altre... con le armi in pugno? Non era forse questo lo spirito del Drang nach Osten degli Ottoni? Che ruolo fu assegnato ai Cavalieri Teutonici nelle loro razzie nella foresta nordica contro i Baltici e gli Ugro-finni, se non quello di impadronirsi delle ricchezze che la foresta forniva fra il XII e il XVI sec. d.C.? Ci scusiamo col nostro lettore per aver condensato, persino con grande libertà e con poche parole, un processo storico variegato e articolatissimo nel tempo, ma abbiamo fornito i primi elementi che possono già da subito servire a capire come mai nel X sec. d.C. Slavi e Germani potessero considerarsi gli ultimi “guardiani silvicoli” d’Europa. Anzi! A noi questo “servizio di protezione” della foresta è parso economicamente determinante per lo sviluppo dell'intera civiltà europea perché condizionò e giustificò quelle campagne politiche, militari e religiose degli stati nuovi e vecchi dell'epoca contro la persistenza della foresta in mani “non cristiane”. Il “servizio di difesa forestale” è oggi un'attività scientifica vera e propria coadiuvata da varie discipline indirizzate allo sfruttamento più che alla conservazione e soprattutto solleva fra storici e specialisti botanici e agronomi della cosiddetta Mitteleuropa (v. H. Küster in bibl.) discussioni che non si sopiscono facilmente. Siccome il nostro interesse è concentrato sull’area abitata dagli Slavi e dagli Slavi Orientali particolarmente, possiamo ora spostarci nel cuore della grande Pianura Russa giacché a partire dal VIII - X sec. Il Medioevo Russo comincia a far “parlare” di sé. Sarebbe facile prendere oggi un aereo e recarsi, ad esempio, in Polonia (nell’affascinante regione dei Laghi Masuri) o in Bielorussia (nei pittoreschi dintorni di Slonim) per visitare la Bjalovjescia, ossia la foresta polacco-bielorussa dove si aggirano ancora i Bisonti europei (Bison bonasus sp.) e forse qualche Uro o Toro selvaggio, ma saremmo ingenui se credessimo che quanto si offre ai nostri occhi sia ancora il paesaggio medievale. Molto è cambiato e non soltanto perché gli alberi si sono riprodotti col passar dei secoli e gran parte di essi non sono più quelli di mille anni fa (benché ce ne siano ancora d’età vetusta di cinque o sei secoli!), ma anche perché molte aree sono ormai decisamente mutate a causa dell’evoluzione del clima, delle condizioni del suolo e soprattutto a causa del disboscamento fatto dall’uomo nella prima rivoluzione industriale (1700), sebbene quest’ultimo fattore abbia agito qui nel nord meno estensivamente. A questo proposito il re polacco-lituano Ladislao II Jagellone (principe russo-lituano Jogaila, ben noto personaggio del Medioevo russo del XV sec.) aveva decretato la conservazione della parte di foresta che sentiva come sua perché qui vi aveva passato infanzia e gioventù e con grande lungimiranza (e allo stesso tempo con egoismo) aveva riservato la Bjalovjescia alle sue battute di caccia! L'atto fu tuttavia convalidato soltanto nel 1541 dai nobili polacchi e comprese i confini dalla Volynia sui Carpazi fino al fiume Neman (ted. Memel) in Lituania, includendo i bacini del Bug minore (affluente della Vistola) e del Pripjat' (affluente del Dnepr). A Kiev ancor prima di Jogaila però, Jaroslav il Saggio (XII sec.) nella raccolta di leggi della Rus’ di Kiev (Pravda Rus'ka/Правда Русъка) aveva posto dei limiti alle grandi battute di caccia nelle foreste intorno (compreso il bacino del Pripjat') tendendo a preservare gli animali e gli uccelli “selvaggi” entro certi numeri e a segnare come proprietà del principe i posti dove si trovava il miele selvatico per non impoverire le rese tributarie del territorio! Oggi in quella regione lo “spettacolo verde” resta imponente e fantastico e pur sempre fitto di alberi dopo la catastrofe di Černobyl. Ci troviamo infatti nelle famose Paludi del fiume Pripjat’ localizzate nel bacino di questo grosso affluente di destra del Dnepr! Sono un mare di verde e di acqua di oltre 100 mila km quadrati (qualcosa di simile – ma più esteso – alle Everglades della Florida) che aveva già spaventato i viaggiatori greci secoli prima! Si pensi che se l’acqua qui raccolta elevasse il suo livello di una sola decina di centimetri, il Poles’e (Полесье, ossia Foresta perché è così che si chiamano in russo le Paludi del Pripjat’) diventerebbe un enorme lago grande quanto l'intero nord Italia. Ciò talvolta avviene attualmente, ma in scala minore e con danni minimi per l'uomo poiché ormai da tempo è diventato un parco nazionale... Nel passato lontano al tempo del solito Erodoto, gli alberi sembra che fossero alquanto più numerosi di oggi poiché lo storico greco racconta che qui ci fosse la Foresta ossia in greco ’Hylaie/Ύλαίη riferendosi di certo al Poles'e fra il Dnepr (Borysthenes) e un altro fiume Hypakiris dove Eracle avrebbe generato Scite, l’eponimo degli Sciti! Secondo B. A. Rybakov (v. bibl.) Hypakiris non è altro che uno dei tanti rami paralleli del Dnepr stesso che vanno a finire nel Mar Nero e precisamente il Konka. Lasciamo la foresta-palude kievana e proseguiamo il viaggio verso sud. Già sulla riva del Dnepr opposta a Kiev siamo al confine meridionale della foresta boreale europea dove adesso il paesaggio diventa stepposo con sempre più rari alberi e con terreno sabbioso… Dal punto di vista fisico l’enorme territorio che abbiamo appena lasciato dietro di noi costituisce il cosiddetto Bassopiano Sarmatico (nome tecnico-geografico un po' obsoleto della Pianura Russa) e parte praticamente dal bacino dell’Oder, oggi fiume al confine fra Germania e Polonia, per giungere fino alla Catena dei Monti Urali. In questo enorme spazio ci sono, sì!, delle alture, ma sono poca cosa (l’altezza massima è di ca. 400 m nel Valdai appena sotto Grande Novgorod) sebbene, quantunque elevate esse siano, costituiscano in ogni caso degli spartiacque per i corsi d’acqua innumerevoli della regione. I più grandi sono il Volga (primo grande fiume europeo), il Don, il Dnepr (secondo grande fiume europeo) che sfociano nel Mar Nero, per tacere dell'Elba, della Vistola e della Dvinà/Dàugava che al contrario sfociano nel nord della Pianura Russa. Alture più importanti sono forse il cosiddetto Rialzo Centrale Russo (regione dell’Alàun con il nominato Valdai!) che segue in pratica il 35° meridiano latitudine est e divide il bacino del Volga (di Mosca) da quello del Dnepr (di Kiev). Più ad occidente c'è il cosiddetto Altopiano Podolico (con la Volynia, la Podolia, la Bessarabia e la Moldavia e di fronte al Bassopiano Ungherese) ai piedi dei Monti Carpazi che costituiscono l’altra “parete” separatrice dell'anfiteatro del Danubio. Anche la Podolia era fittamente ricoperta di verde una volta molto più di oggi! Dalle ricerche storiche e genetiche e dagli scavi archeologici sappiamo che fu proprio lungo il Bacino del Dnepr e sui Carpazi il luogo dove si costituirono i più antichi nuclei politicamente organizzati degli Slavi orientali che si divisero nel nordest nelle tre etnie bielorussa, ucraina e grande-russa fra il V e l’VIII sec. d.C. Qui è la regione meglio nota come l’Europa Centrale o Mitteleuropa e qui si trovano le sorgenti dell'Elba (in Tacito Albis, slavo Laba, in tedesco Elbe) fiume slavo per eccellenza benché sfoci nel Mar del Nord ad Amburgo e dove a metà percorso gli Slavi rivieraschi, ma non proprio tutti, hanno ormai rinunciato alla lingua originaria per quella tedesca! Le uniche tracce linguisticamente riconoscibili come “slave” (o meglio Balto-slave) rimangono nella toponomastica che indica le correnti migratorie dirette verso nordest, ma originatesi nelle Steppe Ucraine. Abbiamo così un’idea della velocità con cui queste genti si muovevano in continuazione in cerca di nuove sedi. Ad ogni modo nel nordest i popoli che gli Slavi incontrarono furono prima i congeneri Balti e poi i Finni. Con questi due nomi collettivi, è bene dirlo subito, intendiamo due etnìe (superetnos le chiama L.N. Gumiljòv) diverse fra loro che oggi in parte per la pressione slava sono relegate rispettivamente intorno alle coste baltiche, i Balti indoeuropei, e all’est di Mosca non ancora “russificate”, gli Ugro-finni. Ricordiamo che i Balti sono a loro volta un gruppo di popoli intimamente unito con gli Slavi poiché le rispettive lingue sono affini fra loro tanto che, con un metodo detto glotto-genetico, è possibile affermare che in epoca anteriore queste parlate si sono separate l’una dall’altra non più di tre o quattromila anni fa usando, chissà, come barriera interetnica giusto la foresta, visto che i Balti furono sicuramente i primi ad arrivare nel nordest. Anzi! L’area da loro occupata era più vasta di quella odierna e giungeva fino alla steppa ucraina a sud e fino al Volga ad est (come giustamente confermano le ricerche della compianta M. Gimbutas).

La cartina qui sopra è tratta da J. Manco (Ancestral Journeys, London 2014) dove sono datate (tutte d.C.) le migrazioni degli Slavi in base alle recenti ricerche genetiche a partire dalla Mitteleuropa e dal nord delle steppe ucraine e dobbiamo dire che corrispondono quasi perfettamente alle deduzioni già fatte sulla base degli scavi archeologici. Dall’altro lato i Finni, parte di un gruppo linguistico che fanno supporre l’esistenza di proprie radici più antiche fra gli attuali popoli dell’Alto Volga e fra i popoli della taigà siberiana poco al di là degli Urali, sono anch’essi degli immigrati nella Pianura Russa, ma giunti molto prima degli Slavi e avendo incontrato i Balti già sul Mar Baltico! Tuttavia la linguista ungherese E. Szilágyi (v. bibl.), chiaramente sulla base di ricerche multidisciplinari fatte insieme con gli archeologi sovietici, scrive: «…(Non basta)… la teoria classica (che conta ancora molti adepti) secondo la quale i primi stanziamenti degli Uralici (ossia dei Finni e dei loro affini, inclusi gli Ungheresi) si localizzavano nel nordest europeo fra la grande ansa del Volga, il corso della Kama e il fiume Ural (una volta Jaik). Al di là di questa zona alcuni ricercatori finnici e ungheresi pensano che gli Uralici abitassero un’area molto più vasta, una grande fascia che si estendeva dal Baltico al fiume Ural.» E non solo! Uno stereotipo che vaga in Europa è che i Turchi siano popoli arrivati nel pieno Medioevo, dopo o con gli Slavi, mentre noi sappiamo dalla toponomastica e dall'archeologia che popoli turcofoni vivevano nell’area balcanica già dal IV e dal V sec. (Avari, Unni). Non solo! Sin dal VI-VII sec. d.C. turcofoni, nomadi, vivevano nella Steppa Ucraina a stretto contatto con tribù slave e, turcofoni agricoltori, nel corso del Medio Volga alla confluenza con il Kama a stretto contatto con Ugro-finni... Ma che cosa spinse gli Slavi (o li attrasse) tanto da intraprendere un così faticoso, pericoloso e lungo viaggio (durò quasi mille anni) dal Centro Europa verso le terre sconosciute del nord? Fu forse l’impoverimento della foresta mitteleuropea immaginabile da quanto detto prima oppure la spinta di altre genti migranti? E quali? Probabilmente una ragione fu che le tribù balto-slave, agricole fondamentalmente, a causa degli arnesi primitivi usati per lavorare i campi periodicamente avevano bisogno di “nuovo” terreno vergine e dovevano pertanto o sottrarne alla foresta intorno a loro finché ce n’era o migrare in altri luoghi più lontani. In più, essendo piccoli allevatori di bestiame minuto (quello di grossa taglia, ma in numero molto ridotto, serviva solo per i lavori agricoli o per trasporto), la selva rappresentava il pascolo più immediato e meno costoso perché si evitava di dover coltivare pure del foraggio e scuotere l'equilibrio economico costi/ricavi. D’altronde, vivendo in stretta simbiosi con gli alberi come i loro concorrenti animali, anche i Balto-slavi in momenti di estrema penuria erano rimasti assidui raccoglitori di prodotti silvicoli. Evidentemente si riusciva a resistere più a lungo e meglio in salute combinando l'agricoltura con la raccolta e la caccia, seppure con enorme fatica. Ma se nell'estremo nord l’agricoltura era in principio insufficiente, perché si abbandonarono certe aree dirigendosi a nord? Una volta qui, il regime di vita dei locali Ugro-finni era quello: raccolta e pesca. Se c'era la foresta, essa s'infittiva verso sud pur rimanendo un'elargitrice generosa pronta a cedere le sue risorse a chi gliele chiedesse... purché la richiesta non fosse troppo intensiva a causa della troppa gente da sostenere! Dunque attriti fra immigrati e autoctoni, fra sedentari e migranti perenni ce ne furono, sebbene traspaiano esclusivamente nel folclore popolare. Secondo i calcoli odierni la raccolta e la caccia non può che soddisfare i bisogni di 20 individui adulti al massimo e, come sottolinea giustamente Roland Bechmann (v. bibl.), vivere solo di raccolta dei prodotti della foresta non conviene giacché implica avere a disposizione almeno un chilometro quadrato per persona da “setacciare” alla ricerca di cibo. Nel nord estremo inoltre prima della tundra ciò è possibile per pochi mesi l'anno e perciò l’impresa risulta difficile e debilitante! Se poi si pensa all'isolamento necessario di un gruppo dall'altro (almeno 20 km per gruppo, appunto!), la situazione diventa molto complicata. L'isolamento tuttavia è relativo poiché per ragioni storico-sociali pregresse e biologiche i contatti fra congeneri si mantengono e nelle grandi occasioni ci si incontra per scambiarsi giovani donne e giovani uomini e, fra gli anziani, le esperienze.

Se ci portiamo nell'epoca medievale e nella Pianura Russa le consistenze numeriche dei gruppi nel nord e la loro distribuzione non erano variati di molto rispetto a quanto abbiamo appena detto su base teorico-generica e la densità demografica in media era bassissima. Non solo! Per la lega etnica dei Balto-slavi il passaggio netto da agricoltori a raccoglitori o viceversa non avvenne mai come non era mai avvenuto a allevatori per analoghe cause ambientali neppure dopo secoli interi di soggiorno nelle steppe ucraine. Poi gli Slavi si separarono dai Baltici e dalla Mitteleuropa premettero verso nordovest addirittura anteriormente all’epoca dell'Impero di Carlomagno e questo sovrano pur di fermare il loro vagare che aveva ormai fatto raggiungere gli Slavi nel VIII sec. d.C. il Reno, li sistemò da contadini lungo questo fiume dopo averli impiegati come soldati. Nel frattempo altri Slavi avevano cercato di sorpassare il “limes” romano più a sud della “loro” sede tradizionale e cioè nella conca del Danubio e alla fine nelle lente, ma costanti migrazioni non rimase che il nordest della Pianura Russa quale area ancora libera! Nelle carte disegnate dallo storico specialista di toponomastica V. Kurbatov le direzioni della migrazione slava verso la Pianura Russa sono sempre le stesse e addirittura sembra che non sempre siano legate all’ambiente forestale e alla difficoltà di penetrarlo, ma che è probabile che anche un altro fattore intervenga nella scelta della strada da seguire, visto che le vie “migratorie” coincidono grosso modo con il vettore magnetico terrestre alle cui correnti quegli antichi uomini dovevano essere sensibili. È un'ipotesi interessante che abbiamo raccolto, benché le prove a favore non siano abbastanza convincenti per parlarne oltre. È più probabile al contrario che gli Slavi avessero ormai scoperto sotto i loro piedi le Terre Nere (rus. Černozjòm), meglio note come Terre a loess. Esse rappresentano un tipo di suolo che si estende dall'Oceano Pacifico all'Ungheria con una prodigiosa composizione argillosa quasi costante nelle proporzioni della miscela edafica che per la sua fertilità ha condizionato e condiziona la vita milioni di persone da migliaia di anni. Nella Pianura Russa tale suolo è presente in vari luoghi e, se diamo un'occhiata alla cartina riprodotta qui sopra (da H. v. Skerst, Ursprung Russlands, v. bibl.) possiamo anche riconoscerli. Le parti più oscure rappresentano uno spessore di 1-1,5 m di terra coltivabile ed è il massimo conosciuto. Dalla storia sappiamo che quelle aree furono sfruttate prevalentemente per l'agricoltura sulle cui rese parecchi stati importanti del Medioevo Russo riuscirono a sostenersi. Adagiati sul fondo basaltico impermeabile questi suoli riescono a conservare molto a lungo l'acqua ricevuta per cui alle latitudini dove nella stagione giusta piove intensamente per breve tempo pur lavorando con arnesi agricoli primitivi promettono ottime messi. Proseguono poi a estendersi verso sud e, siccome gli Slavi erano in prevalenza contadini, la riva sinistra del Dnepr (opposta a Kiev) era lasciata volentieri alla frequentazione dei nomadi che erano invece allevatori e pastori. Questo perché nel resto della loro estensione a sud con spessore edafico minore le Terre Nere sono lasciate alla crescita spontanea di specie erbacee e costituiscono le cosiddette steppe che, sempre guardando la cartina, cominciano, come dicevamo, nei pressi di Černìgov non lontano da Kiev. Teniamo presente che l'agricoltura si sposa difficilmente con la steppa a meno che non si disponga di mezzi meccanici e di prodotti chimici che liberino il seminato a frumento dall'invasività continua delle erbe steppiche (graminacee e altre), come è avvenuto nel XIX sec. che ha trasformato l'Ucraina in un enorme granaio europeo.
NB
Per la bibliografia si rifà a numerosi lavori e la potete richiedere direttamente all'autore su FB o sul sito Italia Medievale.

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