sabato 22 ottobre 2016

L’intelligenza delle piante


L’intelligenza delle piante di Damiano Fedeli Giornalista ed altro

La prossima volta che vi capiterà di osservare un albero, o anche solo un cactus della terrazza, certo li guarderete con occhio diverso. Perché le piante, dalla quercia più imponente al fiore più esile, hanno una «testa pensante»: riflettono, si scambiano informazioni o avvertimenti, prendono decisioni. E il loro cervello segreto è nelle radici.

Una verità che Charles Darwin aveva già sospettato e che viene confermata dalla scienza. Su ogni singola punta delle radici (il nome è apice radicale) c'è un gruppo di cellule che comunica usando neurotrasmettitori, proprio come i nostri neuroni; e queste cellule elaborano e rispondono alle informazioni che arrivano qui da tutta la pianta.

Ciascun apice è autonomo, ma può anche coordinarsi con gli altri. Un vero e proprio cervello diffuso il cui funzionamento a rete ricorda quello di internet, e che permette agli alberi non solo di comunicare, ma persino di avere una memoria e una sorta di autocoscienza.

La scoperta è di un gruppo di ricercatori delle Università di Firenze e di Bonn e rappresenta una svolta in ciò che finora si sapeva sui vegetali. È nata persino una nuova scienza, la neurobiologia vegetale, di cui si è tenuto di recente a Firenze il primo congresso internazionale.

Gli studiosi della nuova disciplina hanno dato vita alla Society for plant neurobiology e a una rivista, Plant signaling & behavior (comunicazione e comportamento delle piante). Nel capoluogo toscano sta poi per nascere il primo laboratorio al mondo per questa materia, destinato a diventarne centro di riferimento.

«Le ricerche degli ultimi quattro anni hanno portato prove che le piante si comportano come esseri intelligenti. Il rischio per noi è stato che si equivocasse una ricerca scientifica solida con credenze popolari che hanno diffuso una serie incredibile di sciocchezze» avverte Stefano Mancuso, del dipartimento di ortoflorofrutticoltura dell'Università di Firenze.

«La neurobiologia vegetale è nata qui e all'Università di Bonn, con il team di Frantisek Baluska, dell'Istituto di botanica molecolare e cellulare. Abbiamo scoperto che in ciascun apice radicale c'è una zona, detta di transizione, le cui cellule hanno caratteristiche neuronali. Mettono cioè in atto una trasmissione sinaptica identica a quella dei tessuti neurali animali».

L'impulso scorre nel cervello della pianta attraverso molecole, i neurotrasmettitori, molti dei quali sono gli stessi con cui comunicano i neuroni animali. «In questi apici troviamo glutammato, glicina, sinaptotagmina, gaba, acetilcolina. Ci siamo chiesti: che cosa ci stanno a fare, se le piante non hanno una trasmissione sinaptica?» racconta il ricercatore. Se era noto che i vegetali producono sostanze attive neurologicamente, come caffeina, teina o cannabina, la scoperta di neurotrasmettitori ha evidenziato l'attività neurale.

Anche il ruolo del più importante ormone vegetale finora conosciuto, l'auxina, è stato ridefinito. Baluska: «Permette alla pianta di accrescersi o di emettere nuove radici ed è un neurotrasmettitore specifico dei vegetali, molto simile alle nostre melatonina o serotonina».

«È tempo di dare il benvenuto alle piante nel novero degli organismi intelligenti» afferma Peter Barlow, della School of biological science dell'Università di Bonn. Una prova di «intelligenza vegetale», del resto, è il comportamento in caso di difficoltà. Le piante agiscono infatti con lo stesso sistema prova-errore degli animali: davanti a un problema procedono per tentativi fino a trovare la soluzione ottimale di cui, poi, si ricordano quando si presenta una situazione simile.

Se per esempio manca acqua, aumentano lo spessore dell'epidermide, ne chiudono le aperture, gli stomi, evitando la traspirazione. Riducono poi il numero di foglie aumentando quello delle radici per esplorare zone vicine.

Viene da chiedersi, però, se non si tratti di stimoli puramente meccanici. «No, si tratta di un comportamento intelligente» sostiene Mancuso. «Se le radici dovessero solo trovare acqua, potrebbe essere automatico. Ma devono anche cercare ossigeno, nutrienti minerali, crescere secondo il senso della gravità, evitare attacchi.

E valutare quindi contemporaneamente le comunicazioni chimiche che le piante si scambiano attraverso l'aria e la terra: messaggi sullo stato di salute o sui parassiti. Se sono attaccate da patogeni, comunicano alle simili della stessa specie con gas e sostanze volatili che c'è un pericolo, invitandole ad aumentare le difese immunitarie. I vegetali, così, dimostrano di essere anche sociali».

Sociali ma non necessariamente socievoli. Essendo esseri territoriali, le piante si mandano segnali del tipo «qui ci sono io», emettendo sostanze disciolte nel terreno. Le radici intercettano le comunicazioni, capiscono se hanno vicino una pianta della stessa specie, e in tal caso la reazione è blanda, oppure se è un'avversaria, e allora diventano aggressive fino a lanciare sostanze velenose.

Tenendo conto di tutti questi stimoli l'apice decide cosa fare. Decisione che viene anche dal ricordo: una pianta che ha già affrontato un certo problema è in grado di rispondere in modo più efficiente. «Questa caratteristica» ricorda Mancuso «era nota: si parlava di acclimatazione. Per esempio, l'olivo a ottobre-novembre si modifica per affrontare l'inverno. Finora lo si spiegava come una risposta meccanica alle variazioni ambientali. In realtà la pianta decide di farlo quando sente le condizioni che ha memorizzato».

Le piante hanno anche una certa coscienza di sé. Diversi esperimenti hanno mostrato che, prendendone due geneticamente identiche, due cloni, e mettendole accanto, quella che è messa in ombra dall'altra si muove alla ricerca di luce. Se invece si accorge di essere essa stessa a farsi ombra con un ramo, nulla accade.

Ma tutte le piante sono ugualmente dotate? Un filo d'erba ha lo stesso Q.I. di una quercia centenaria? «È possibile che ci siano piante più intelligenti, ma ancora non lo sappiamo» riconosce Mancuso. «Per misurare il quoziente intellettivo di un ratto lo si mette in un labirinto e si guarda quanto impiega ad arrivare al cibo.

Si è visto che una radice di mais inserita in un labirinto la cui meta era dell'azoto ci arrivava senza sbagliare, trovando la via più corta: in questo caso si tratta di organi di senso più raffinati».

«Siamo appena all'inizio di una rivoluzione nel nostro modo di pensare alle piante» commenta Dieter Volkmann, del gruppo di Bonn. Questi studi, oltre a rivoluzionare le conoscenze sulle piante, hanno ricadute anche sull'uomo. I neuroni verdi possono fungere da modello per sperimentare terapie contro malattie degenerative del sistema nervoso, come il morbo di Parkinson e di Alzheimer.

«Gli animali vengono utilizzati, e con successo, in questo tipo di studi. Usare le piante non è però un regresso nella scala evolutiva» dice Mancuso. «Una cellula neuronale vegetale è sì un modello semplificato di neurone, ma proprio per questo consente di individuarne più facilmente i meccanismi.

Non ci sono problemi di vivisezione e le cellule delle piante sono facilmente trasformabili geneticamente, caratteristiche che potrebbero farne un materiale da laboratorio valido dalla ricerca di base alle applicazioni terapeutiche.

Il Medical research council di Cambridge, il laboratorio di biologia molecolare fucina di premi Nobel, collabora con noi in questo campo». Non è finita: i neuroni delle piante potrebbero presto diventare un modello anche per gli studi sull'intelligenza artificiale.

Le piante carnivore hanno un intero arsenale a disposizione per attirare le prede: colori accesi, nettari deliziosi... Finora però nessuno sapeva che fossero anche in grado di produrre una particolare bioluminescenza blu acceso, invisibile all'occhio umano ma non alle malcapitate prede, come quella visibile in quest'immagine di una pianta Nepenthes khasiana scattata nell'ultravioletto.

Come rivela infatti un nuovo studio pubblicato sulla rivista Plant Biology, le piante carnivore posseggono cellule specializzate capaci di produrre questa colorazione all'ultravioletto che di sicuro non sfugge agli insetti, ma forse, sospettano i ricercatori, anche a piccoli mammiferi.

(3)Quel che una pianta sa: l’affascinante intelligenza delle piante

Come fa un fiore di ciliegio a sapere quando è ora di sbocciare? Si rende davvero conto che è arrivata primavera? E come fa una Venere acchiappamosche a capire quando far scattare le sue foglie e intrappolare la preda? È forse in grado di avvertire le sottilissime zampe dell’insetto? Per la rubrica “Racconti d’Ambiente“, pubblichiamo oggi un estratto del libro “Quel che una pianta sa“, del biologo Daniel Chamovitz, pubblicato da Raffaello Cortina Editore. L’autore punta lo sguardo sulle modalità con cui i vegetali fanno esperienza del mondo, dai colori che “vedono” agli odori che “annusano”, a quel che “ricordano”. Noi e i vegetali siamo figli della medesima evoluzione anche se due miliardi di anni fa è avvenuta la grande biforcazione tra le bellissime forme animali e quelle vegetali. In questo viaggio tra erbe, fiori e alberi, possiamo imparare come le piante distinguano l’alto dal basso, come si accorgano che una loro vicina è infestata, scoprendo che con i girasoli e le querce abbiamo in comune molto più di quanto possiamo immaginare. Ecco il prologo del libro…

Il parallelismo fra i sensi delle piante e i sensi negli esseri umani ha cominciato ad affascinarmi negli anni Novanta del secolo scorso, quando ero ancora un giovane assegnista di ricerca alla Yale University. Mi interessava studiare un processo biologico specifico delle piante che non avesse alcuna relazione con la biologia umana (probabilmente, per reagire al fatto che in famiglia c’erano altri sei dottori, e tutti in medicina).

Perciò, mi attraeva indagare su come le piante usino la luce per regolare il proprio sviluppo, e nel corso delle mie ricerche ho scoperto un gruppo specifico di geni necessario alla pianta per determinare se si trova esposta alla luce oppure al buio. Con mia grande sorpresa e contro ogni mia intenzione, in seguito ho scoperto che lo stesso gruppo di geni fa parte anche del DNA umano. Questo mi ha spinto a chiedermi quale azione svolgano nelle persone questi geni apparentemente “specifici delle piante”. Molti anni più tardi e dopo svariate ricerche, ora sappiamo che questi geni non soltanto si sono mantenuti sia nei vegetali sia negli animali, ma che in entrambi i casi regolano (insieme ad altri processi dello sviluppo) anche le risposte alla luce!

Mi sono reso conto, quindi, che la differenza genetica fra le piante e gli animali non è così rilevante come credevo un tempo, e ho cominciato a interrogarmi sui parallelismi fra le piante e la biologia umana proprio mentre le mie ricerche passavano dallo studio delle risposte alla luce da parte delle piante alla leucemia del moscerino della frutta. Ho scoperto che, pur se nessun vegetale a mia conoscenza dirà mai: “Dammi da mangiare, Seymour!”, ci sono molte piante che “ne sanno” un bel po’.

Anzi, noi tendiamo a non prestare troppa attenzione all’apparato sensoriale così straordinariamente sofisticato dei fiori o degli alberi del nostro giardino. Mentre la maggior parte degli animali può scegliere il proprio ambiente, cercare riparo da un temporale, procurarsi cibo e una compagna o un compagno, oppure migrare con il cambiare delle stagioni, le piante devono essere in grado di resistere e adattarsi continuamente ai mutamenti climatici, agli sconfinamenti dei vicini e ai parassiti che le invadono, senza avere possibilità di spostarsi in un ambiente migliore. Per questo, le piante hanno sviluppato complessi apparati sensoriali e regolatori che consentono di modulare la propria crescita in risposta a condizioni sempre differenti. Un olmo deve sapere se il vicino gli fa da scudo rispetto al Sole, in modo da trovare la maniera di crescere verso la luce a sua disposizione. Una lattuga deve sapere della presenza di famelici afidi, in modo da produrre sostanze chimiche velenose che li uccidano. Un abete di Douglas deve sapere se venti sferzanti stanno scuotendo i suoi rami, in maniera tale da poter far crescere un tronco più robusto. I ciliegi devono sapere quando fiorire, e così via.

A livello genetico, le piante sono più complesse di molti animali, e alcune delle scoperte più importanti di tutta la biologia sono il risultato di ricerche condotte su di loro. Robert Hooke scoprì l’esistenza delle cellule nel 1665, mentre studiava il sughero con il primitivo microscopio che si era costruito da solo. Nel diciannovesimo secolo Gregor Mendel enunciò i principi della moderna genetica usando piante di piselli; e alla metà del ventesimo secolo Barbara McClintock usò il mais per mostrare la trasposizione genica, ovvero che i geni possono saltare da un punto all’altro del corredo genetico. Oggi sappiamo che questi “geni saltanti” sono una caratteristica di ogni DNA e che negli esseri umani sono strettamente correlati con il cancro. E anche se riconosciamo in Charles Darwin il padre fondatore della moderna teoria dell’evoluzione, alcune delle sue scoperte più importanti hanno riguardato specificamente la biologia delle piante, e nelle pagine di questo libro ne incontreremo diverse.

Evidentemente, il mio uso della parola “sapere” è tutt’altro che ortodosso. Tuttavia, le diverse parti di una pianta sono strettamente collegate fra loro, e le informazioni riguardanti la luce, le sostanze chimiche presenti nell’aria e la temperatura vengono scambiate costantemente fra radici e foglie, fiori e steli, per far sì che il vegetale si ponga nelle migliori condizioni nei confronti dell’ambiente. Non possiamo mettere sullo stesso piano il comportamento umano con le modalità con le quali funzionano le piante, ma vi chiedo di sodalizzare con me se per tutto il libro ricorro a una terminologia riservata di solito all’esperienza umana. Quando esploro quello che una pianta vede o annusa, non sostengo con questo che la pianta abbia occhi oppure naso (o un cervello che influenzi l’input sensoriale con l’emozione). Ma credo che questa terminologia ci aiuti a considerare secondo un’altra ottica la vista, l’odorato, e quello che è veramente un vegetale. E in definitiva ciò che siamo noi.

Il mio libro non è “La vita segreta delle piante“; se cercate tra le mie pagine la dichiarazione che le piante sono esattamente come noi, non la troverete. Come ha sottolineato il noto fisiologo vegetale Arthur Galston nel 1974, nel momento di maggiore successo di quel libro, estremamente popolare, ma carente dal punto di vista scientifico, dobbiamo stare in guardia da “bizzarre affermazioni senza adeguate evidenze a sostegno”. Peggio ancora che fuorviare il lettore ignaro, “La vita segreta delle piante” ha avuto come conseguenza un fallout scientifico che ha ostacolato importanti ricerche sul comportamento dei vegetali, rendendo gli scienziati diffidenti nei confronti di qualsiasi studio che accennasse minimamente a parallelismi fra i sensi degli animali e i sensi delle piante.

Negli oltre tre decenni trascorsi dal momento in cui “La vita segreta delle piante” ha suscitato grande interesse da parte dei media, la nostra comprensione della biologia vegetale è cresciuta enormemente. Nel mio Quel che una pianta sa passerò in rassegna le ultime ricerche nel campo della biologia vegetale e mostrerò che le piante posseggono davvero dei sensi. Ciò non significa che il volume costituisca un panorama esaustivo di quanto la scienza è in grado di affermare oggi sui sensi delle piante; occorrerebbe un manuale comprensibile soltanto dai lettori più addentro alla materia. Invece, in ogni capitolo, concentrerò l’attenzione su uno dei sensi umani, confrontando ciò che questo rappresenta per le persone da una parte e per le piante dall’altra. Descriverò come l’informazione sensoriale venga percepita e poi elaborata, e le implicazioni ecologiche che ha per una pianta il senso preso in esame. E ogni capitolo conterrà sia un excursus storico sia uno sguardo sullo stato dell’arte. Ho scelto di parlare di vista, tatto, udito, propriocezione e memoria; dedicherò un capitolo anche all’odorato, ma non mi soffermerò sul gusto (i due sensi sono comunque strettamente correlati).

Noi siamo del tutto dipendenti dalle piante. Ci svegliamo in case fabbricate con il legno delle foreste del Maine, ci versiamo una tazza di caffè macinato da chicchi cresciuti in Brasile, indossiamo magliette fatte di cotone, stampiamo le nostre relazioni su carta, portiamo i nostri figli a scuola in auto con pneumatici fatti di gomma cresciuta in Africa e ci riforniamo di benzina derivata da cicadi morte milioni di anni fa. Estratti chimici delle piante riducono la febbre (pensate all’aspirina), e trattano il cancro (Taxol). Il grano ha portato alla fine di un’epoca e all’inizio di un’altra, e l’umile patata ha spinto a migrazioni di massa. Le piante continuano a ispirarci e a sorprenderci: le possenti sequoie sono gli organismi singoli e indipendenti più grandi al mondo, le alghe sono alcuni dei più minuscoli, e le rose inducono qualsiasi persona al sorriso.

Sapendo quello che le piante fanno per noi, perché non soffermarci un attimo a scoprire cosa hanno svelato su di loro gli scienziati? Sarà il nostro viaggio nel mondo della scienza che studia la vita delle piante; cominciamo, quindi, a capire cosa vedono davvero mentre passano il tempo nel nostro giardino.

Daniel Chamovitz *

Biologo, dirige il Manna Center for Plant Biosciences all’Università di Tel Aviv. È autore di scoperte rivoluzionarie nell’ambito della biologia delle piante, e le sue ricerche sono state pubblicate sulle riviste più prestigiose.

http://www.greenews.info/rubriche/quel-che-una-pianta-sa-laffascinante-intelligenza-delle-piante-20131008/

(4)Il linguaggio delle piante

Sembra che anche le piante possano "origliare" le conversazioni dei vicini, e che quello che "ascoltano" ne influenzi (bene o male, a seconda dei vicini) la crescita: è quanto emerge da un nuovo studio pubblicato a maggio sulla rivista BMC Ecology, in base al quale le piante ricorrerebbero a segnali acustici per comunicare tra loro.

"Abbiamo dimostrato che le piante sono in grado di riconoscere se quello che gli cresce accanto sia o meno un buon vicino", afferma Monica Gagliano, ecologa evoluzionista della University of Western Australia, tra gli autori dello studio. "E supponiamo che questa informazione sia veicolata da un segnale acustico".

La loro scoperta induce a credere che le piante non solo possano "sentire l'odore" di sostanze chimiche e "vedere" la luce emessa dai loro vicini (modalità di comunicazione già note agli scienziati), ma che possano persino "ascoltare i suoni" emessi da altre piante. "Le piante sono organismi molto più complessi di quanto pensiamo", afferma Gagliano.

Buon vicinato
Nel recente studio Gagliano e il collega Michael Renton hanno osservato che le piante di peperoncino in compagnia di "buoni vicini", come ad esempio il basilico - che inibisce lo sviluppo di erbacce e parassiti - crescevano più in fretta e più sane rispetto a quelle isolate.

Incredibilmente, lo stesso risultato si è ottenuto anche dopo aver avvolto le piante in fogli di plastica nera, in modo che non potessero scambiarsi radiazioni o segnali chimici. In un modo o nell'altro le piantine di peperoncino sono riuscite comunque a individuare che tipo di piante fossero i loro vicini, e a reagire di conseguenza.

"L'ipotesi che quello che si scambino sia una vibrazione sonora è la più semplice, e forse la più intuitiva, perché i suoni si propagano molto bene attraverso numerosi mezzi", spiega Gagliano. Quest'ultima ricerca di Gagliano è la prosecuzione di un esperimento effettuato lo scorso anno, in cui il suo team ha mostrato che le piante di peperoncino avvertono, allo stesso modo, se si trovano invece fra "cattivi vicini", come ad esempio il finocchio, che emette sostanze chimiche che inibiscono la crescita delle altre piante.

La "lingua delle piante"

Gli scienziati dichiarano che la ricerca su questa insolita forma di comunicazione tra piante è ancora ai primi stadi, e sono consapevoli che molte questioni sono ancora aperte. Per esempio, le piante comunicano intenzionalmente le une con le altre? E, se è così, parlano una "lingua delle piante" universale?

"Qualunque sia il tipo di segnale emesso, non sappiamo ancora se lo producano allo scopo effettivo di comunicare o se sia un sottoprodotto secondario di qualche attività che poi viene 'captato' da altre piante", spiega Renton.

E poi rimangono altri misteri: quali strutture corporee userebbero le piante per parlarsi e ascoltarsi tra loro? E gli insetti e gli animali potrebbero forse spiare le loro conversazioni per usarle, in qualche modo, ai loro scopi?

"Non lo sappiamo", ammette Gagliano. Ma, aggiunge, "i dati ci sono. Le piante qualcosa stanno facendo. Anche se non so spiegarlo fino in fondo, questo non significa che non accada".

Comunque accada, Gagliano ritiene che la capacità di comunicare con i suoni sia diffusa tra le piante. "Se si tratta di un'ulteriore modalità che le piante usano per comunicare, allora mi aspetto che sia diffusa ovunque", dice.

Gagliano pensa che i segnali acustici potrebbero essere un modo rapido e semplice, per le piante, per identificare i loro vicini e anticiparne le mosse. Comunicare invece tramite segnali chimici comporta la produzione di molecole e recettori specializzati, che risulta più costoso dal punto di vista del dispendio di risorse.

Coltivare con la musica

Richard Evans, esperto di coltivazione e di ecosistemi della University of California della città di Davis, non coinvolto nello studio, afferma che, anche se preferirebbe vedere l'esperimento ripetuto più volte, queste scoperte "sono senza dubbio affascinanti".
"Sembra che i ricercatori abbiano provato che tra le piante esiste una modalità di comunicazione mai identificata prima", continua Evans.

Gagliano ipotizza che indagare i segreti della comunicazione tra le piante potrebbe anche avere ricadute pratiche a nostro vantaggio. Immagina che gli agricoltori, invece di ricorrere a fertilizzanti o pesticidi, un giorno potranno usare i suoni per incoraggiare o inibire la crescita di certe piante.

"Penso che finora non abbiamo sfruttato a pieno quello che la natura ci mette a disposizione", sostiene. "È come se ci limitassimo a una piccola cassetta degli attrezzi quando la natura ci fornisce una gamma molto più ampia di strumenti da utilizzare".

Ma Renton, coautore dello studio, ci tiene a precisare che, comunque, "gli effetti osservati sono piuttosto piccoli".

E conclude: "Penso dovremo aspettare un po' per sapere se a un agricoltore convenga economicamente usare la musica per ottenere quel piccolo incremento nella velocità di germinazione".

Fonte:
http://www.nationalgeographic.it/scienza/2013/05/13/news/piante_che_parlano-1649137/

Le cinque piante più antiche del pianeta


Matusalemme, ha 4841 anni di età, questo antico pino bristlecone è il più antico albero vivente. Situato nelle White Mountains della California, la posizione esatta di Matusalemme è un segreto, sopratutto per proteggerlo dal pubblico. (Un esemplare più grande di nome Prometeo, di circa 4900 anni di età, è stato abbattuto da un ricercatore nel 1964 con l'autorizzazione del Servizio Forestale degli Stati Uniti.)

Immagine Antica pianta: Sarv-e Abarqu.
Sarv-e Abarqu, è un cipresso nella provincia di Yazd, in Iran. L'albero ha oltre 4.000 anni: per aver vissuto agli albori della civiltà umana è considerato un monumento nazionale iraniano.

Immagine antica pianta: Llangernyw Yew.
Quest'incredibile tasso risiede in un piccolo sagrato di una chiesa nel Galles del nord. Ha circa 4.000 anni ed è ancora in crescita! Nel 2002, per celebrare il giubileo d'oro della regina Elisabetta II, l'albero è stato designato come uno dei 50 grandi alberi britannici.


Alerce è il nome comune del cupressoides Fitzroya, una specie arborea autoctona sulle montagne delle Ande. Ad oggi, il più antico esemplare vivente ha 3640 anni.


Il senatore, che si trova in Florida, è il più grande cipresso calvo negli Stati Uniti, ed è ampiamente considerato il più antico della sua specie. Ha circa 3.500 anni ed il senatore fu utilizzato come punto di riferimento dagli indiani. La dimensione del senatore è particolarmente impressionante: questa gli ha permesso di sopportare molti uragani, tra cui uno nel 1925 che ha ridotto la sua altezza di 40 metri. L'albero deve il suo nome dal senatore M.O. Overstreet, che ha donato il terreno dove si trova e i dintorni nel 1927.

https://www.treedom.net/en/blog/post/i-5-alberi-viventi-piu-antichi-del-mondo-448

E per finire, la pianta più antica del mondo ha 13.000 mila anni.

Trovata in California. E' una quercia che si è clonata nel corso dei secoli. Il precedente primato era di un pino di 9.000 anni che vive in Norvegia di LUIGI BIGNAMI


E’ una quercia trovata su una collina della California, la pianta più antica del mondo sopravvissuta per 13 mila anni dall’ultima era glaciale ad una serie di eventi climatici devastanti. E’ stata scoperta nel 2009 da ricercatori dell’università di Davis, in California.
La specie è Quercus palmeri e la pianta è stata soprannominata Jurupa dal nome del luogo in cui vive in California, sulle montagne omonime della contea di Riverside.
Jurupa è unica nel suo genere: questo strambo albero a cespuglio, che copre una larghezza di circa 25 metri, si trova in una zona inospitale, la macchia tipica dei deserti nordamericani, incuneato tra massi di granito e spazzato dal vento.

C'era ancora l'ultima era glaciale quando, 13.000 anni fa, un piccolo seme di una quercia iniziò a svilupparsi e a crescere in un'arida area della California e da allora ha continuato a vivere fino ai nostri giorni, seppur sotto forma di clone.

Circa dieci anni fa, Mitch Provance dell'Università della California, stava conducendo un sopralluogo sulle montagne della regione di Jurupa, quando si trovò ad attraversare una macchia di una particolare specie di querce. Provance trovò interessante quel gruppo di alberi non solo perché si trovavano in un ambiente che non era tipico per loro (a quota più alta), ma perché tutte le piante erano estremamente simili l'una all'altra. Provance intuì quasi immediatamente che ciascuna pianta poteva essere un clone dell'altra.

A quel punto è iniziato uno studio specifico che ha portato a scoprire che tutte le piante avevano proteine esattamente simili. "Le probabilità che tali cespugli potessero essere tutti così uguali dal punto di vista del loro chimismo erano insignificanti", ha detto Jeffrey Ross-lbarra che ha eseguito la ricerca, pubblicata su PlosOne.

L'unica possibilità che può spiegare una tale diffusione di piante simili consiste nell'ammettere che le piante sono cloni di se stesse.

Per porre una data sulla prima pianta che è cresciuta in quel luogo i ricercatori sono risaliti ai cicli di vita che quella macchia ha avuto. Li hanno contati considerando che ciascuno è di 40-50 anni e che per incendi o per altri motivi terminano la loro vita rinascendo all'interno della macchia stessa per poi allargarsi. In questo modo sono riusciti a risalire all'età: circa 13.000 anni.

Qualche ricercatore tuttavia ha dubbi sul metodo utilizzato per risalire così indietro nel tempo. Tra questi vi è Marc Abrams dell'Università della Pennsylvania, il quale sostiene che si dovrebbero trovare altri indizi per avere la certezza che si tratta di un'unica pianta che si è clonata in un così lungo lasso di tempo. Ross-lbarra sostiene che se si riuscisse a trovare un piccolo pezzo di legno fossilizzato, l'analisi del carbonio potrebbe dare la conferma definitiva.

Fino ad oggi la più antica pianta conosciuta era una conifera scoperta al confine tra la Svezia e la Norvegia, che risalirebbe a circa 9.000 anni fa. Dopo queste eccezioni segue "Matusalemme", un pino Bristlecone che vive vicino Las Vegas, la cui età si aggira attorno ai 5.000 anni. Altri alberi vecchi di migliaia di anni vivono in Iran, dove un cipresso sembra avere 4.000 anni; in Cile dove un altro cipresso ha compiuto i 3.600 anni. In Italia il censimento degli alberi monumentali realizzato dal Corpo forestale dello Stato ha individuato l'albero più antico della nostra penisola nell'oleastro di San Baltolu di Luras, in provincia di Sassari: ha 3.000 anni. Dal punto di vista scientifico si tratta di un Olea europaea oleaster, in altre parole un olivo selvatico. Un esemplare di 15 metri di altezza e 11 metri di circonferenza.

Fonte:

http://www.repubblica.it/ambiente/2009/12/29/news/ecco_la_pianta_piu_vecchia_ha_la_bellezza_di_13_000_anni-1819683/


Fatta fiorire una pianta con un seme di 32 mila anni fa

Recuperato in una tana fossilizzata di scoiattoli a 38 metri di profondità nella tundra siberiana.

MILANO - Per 32 mila anni quel seme era stato conservato a 38 metri di profondità nel permafrost - il terreno perennemente gelato della tundra siberiana nord-orientale - contenuto in una tana fossilizzata di scoiattoli a Duvanny Yar, sulle rive del corso inferiore del fiume Kolyma. Un gruppo di scienziati russi del Centro di ricerche di Pushkino l'ha riportato in vita e l'ha fatto germogliare. Il fiore, al di là delle più rosee aspettative degli stessi ricercatori, è sbocciato e, al posto di mammut giganteschi che se lo sarebbero ingollato in un attimo, si è trovato accudito meglio di un figlio, bersagliato di fotografie e pubblicato sul numero odierno dell'autorevole rivista scientifica americana Pnas.

Come penso si è dimostrato dalla breve documentazione sopra, l’immortalità per l’uomo non è utopia, ma impedita da un potere dominante alieno.

Fonte:
http://www.corriere.it/scienze/12_febbraio_21/fiorita-pianta-artico-russia_83f227cc-5c74-11e1-beff-3dad6e87678a.shtml