giovedì 3 luglio 2014

Perché non vale la pena vivere

Perché non vale la pena vivere? Perché il male vince sempre sul bene e la morte sulla vita. Gli sforzi per costruire qualcosa che resista al tempo, che sfugga all’occasionalità precaria e minimale dell’esistenza, sono del tutto simili alle inani fatiche di Sisifo, inevitabilmente destinati al fallimento e all’insuccesso. Un evento imprevisto o imprevedibile, un’azione insensata o gratuita, una malattia subdola o conclamata, ci tolgono, in una porzione cronologicamente variabile, tutto quello per cui avevamo vissuto, sofferto, amato, lottato, a volte con accanimento e abnegazione, fino all’estremo sacrificio di noi stessi. La speranza, la fiducia che riponevamo nella vita vengono ripagati con la bronzea moneta del fatto, dell’accaduto ineluttabile, dell’evento di fronte al quale si deve rimanere muti e impotenti: allora, quelle lasciano finalmente il posto alla delusione, alla sconfitta, ad un disperante senso di vuoto che, colpendoci in pieno petto, ci annienta e nullifica, lasciandoci confusi e senza parole, privi di forze e respiro, come otri sventrate. E’ veramente difficile riuscire ancora a bilanciare il peso sulle gambe, rialzarsi e camminare normalmente come se nulla fosse accaduto, farsene una ragione, crearsi nuove ragioni di vita.
Nuove ragioni di vita? E quali, dal momento che l’esperienza ci dimostra che non sussistono possibili ragioni di vita che possano superare il suo medesimo impietoso collaudo: ovunque precarietà, impermanenza, mutamento, dolore, morte. Noi, tuttavia, ancora a sperare, a progettare, a prospettare alternative percorribili e possibili soluzioni, credendo in qualche modo di poter gestire la situazione, ostentando un ridicolo senso di superiorità. L’uomo non è forse padrone del proprio destino, non è forse immortale? E poi, non c’è forse un Dio che ci aiuta e che ci vuol bene? E se così non fosse, perché ci avrebbe creati? Appunto.
Non sappiamo nemmeno da dove siamo venuti, né perché siamo qui è già cominciamo a ringraziare, senza beneficio d’inventario, per l’immenso e inestimabile dono della vita: guai a dire il contrario! Gli induisti, i buddhisti, i manichei, gli orfici: solo dei poveri imbecilli, pessimisti, non a ragion veduta, ma per partito preso.
Perché non vale la pena vivere? Ognuno di noi potrebbe fornire la giusta risposta, ma si guarda bene dal farlo. Viviamo in un mondo in cui un ineffabile ordine provvidenziale decreta che almeno un bambino su cento venga alla luce con gravi difetti congeniti che lo marchieranno a fuoco per tutta la vita: questo è un fatto che non andrebbe interpretato alla luce di qualche ottuso sistema teologico, ma una realtà di cui, semplicemente, si dovrebbe prendere atto. Viviamo in un mondo così buono e finalizzato al bene da fondare la sua condizione esistenziale su un'unica alternativa: uccidere o essere uccisi, mangiare o essere mangiati: bisogna davvero essere infinitamente buoni e misericordiosi per aver concepito, sin dall’inizio dei tempi, un Ordine siffatto!
Quando ci rifiutiamo di riconoscere la realtà, ci comportiamo come bambini moccolosi che, spaventati dalla propria ombra, non sanno far altro che infilare la testa sotto qualche compiacente sottana, peraltro, sempre disponibile all’occorrenza.
Sull’abbrivio del terzo millennio bisognerebbe conclusivamente riscattarsi da questo stato di minorità che ci rende ebeti e consenzienti ad ogni biologica turpitudine e riconoscere che è la vita a servirsi di noi e non l’opposto.
Scrisse Arthur Schopenhauer: “La sapienza consiste nel rendersi conto che i ricavi [dell’esistenza] non coprono i costi, e nell’abbandonare l’attività”. Non dovremmo più permettere a nessuno di venire a farci i conti in tasca, falsificando il registro della nostra contabilità esistenziale: esistono anche i bilanci in passivo, e non costituiscono una minoranza, esistono anche i numeri negativi, non solo quelli a destra dello zero. Riabituiamoci a tirare le somme.
Prof. Piero Ferrari.

Dello stesso autore e sul medesimo sito:
Teologia della malvagità: gli Elohim.
Sulla malvagità.